Esistono immagini in grado di raccontare la storia di un brand, di far immergere nel suo mondo narrativo e di professare il suo universo valoriale. Non hanno bisogno di nulla. Nessun logo, nessuna descrizione, nessuna applicazione grafica. Hanno un tale potere evocativo e una connotazione così distintiva da innescare subito l’associazione con il marchio, senza dover ricorrere ad elementi esterni allo scatto.
Definire una precisa identità fotografica di marca, associarla all’azienda e utilizzarla come elemento cardine per costruire una brand identity distintiva è un’operazione tanto complessa quanto potenzialmente redditizia. Riuscire a posizionarsi nella mente dei consumatori come riferimento visivo per la propria categoria merceologica assicura, infatti, un vantaggio competitivo senza pari.
Non tutti i brand, però, dispongono di un salvadanaio che consenta loro di investire senza compromessi sulla visual identity. Molti, rompendo il maialino di ceramica, si rendono conto che per lo sviluppo della brand identity rimangono davvero pochi spicci. Alcuni si arrendono, altri decidono di cercare soluzioni low budget altrettanto efficaci. Chi si affida al cugino fotografo, chi ricorre alle immagini su licenza e chi, navigando in Rete, decide di farsi aiutare dall’intelligenza artificiale. Ma l’abbaglio da prompt è sempre dietro l’angolo e il rischio di arrendersi a soluzioni più artificiali che intelligenti è molto alto.
L’utopia degli shooting fotografici di marca
L’acciaio degli utensili Alessi, riflesso in un sapiente gioco di luci e ombre negli scatti di Studio Ballo & Ballo, e i neri profondi delle vesti di Marpessa, immortalati da Ferdinando Scianna per Dolce&Gabbana, sono ormai un ricordo lontano. Retaggio di un glorioso passato in cui le aziende affidavano la costruzione della propria brand identity all’obiettivo di rinomati fotografi che, scatto dopo scatto, avevano il compito di delineare la direzione in cui doveva evolvere l’identità visiva del marchio.
L’advertising online era ancora sconosciuto e la pubblicità cartacea regnava indisturbata tra le attività promozionali, in qualsiasi settore del mercato. Meno attenzione alle conversioni, nessun dato certo del ritorno sull’investimento; solo tanta ricerca creativa e la ferma volontà di distinguersi, per diventare icone inarrivabili del consumismo contemporaneo.
I tempi sono evoluti, le priorità sono cambiate e i budget, spesso, si sono ridotti. Il performance marketing e la necessità di tracciare il rendimento di ogni centesimo investito in pubblicità hanno portato a una concezione tutta nuova della componente visiva nella brand identity. Spesso funzionale alle logiche responsive dei siti web e all’ossessiva ricerca di click, lo scatto fotografico d’autore ha perso buona parte della sua rilevanza ed è divenuto un lusso che pochi brand possono permettersi.
Oggi, infatti, la pratica dello shooting fotografico è sempre più rara. Fatta eccezione per le aziende che necessitano di inserire a catalogo un riferimento visivo dei propri prodotti fisici, sono poche le imprese che investono sui professionisti dell’obiettivo. Se liberiamo il campo dalle grandi corporate e dalle multinazionali, non sono molte le PMI ad avere un’identità fotografica di marca definita. È ormai più frequente la ricerca di un proprio stile identitario per i contenuti video; la ricerca dell’immagine perfetta, da declinare sui diversi canali di comunicazione, sembra invece essere andata perduta.
Immagini stock e brand identity
Per abbattere i costi e ridurre i tempi di lavorazione, la maggior parte delle piccole e medie aziende, alle prese con lo sviluppo della propria brand identity, decide di ripiegare sulle banche di immagini utilizzabili su licenza. Facili da reperire, economici, ad altissima definizione: nel settore dei servizi, dove non è necessario mostrare il prodotto in sé, questi scatti ready-to-use sono ormai la normalità.
Diciamolo: Unsplash sta allo studio fotografico, come l’emporio di fast fashion sta all’atelier di alta moda. Eppure, in giro, c’è pieno di gente vestita Zara. Per lo stesso principio per cui abbiamo deciso di accettare le camicie in acrilico a 25,99€, non dovremmo demonizzare le immagini stock e dovremmo iniziare a riconoscere il ruolo che possono ricoprire nella costruzione di una brand identity di successo. Se opportunamente acquistate («salva come immagine» + pennello correttivo di Photoshop per rimuovere i watermark non è un’opzione) e maneggiate da chi di ritocco fotografico se ne intende, possono diventare una valida alternativa agli scatti originali, soprattutto se inserite all’interno di composizioni grafiche più elaborate.
Chiamiamo nuovamente in nostro aiuto la metafora sartoriale: un abito cucito su misura è unico, quello che compri sullo scaffale di un negozio può, invece, finire nell’armadio di chiunque. Il rischio delle immagini stock è infatti che, comparando brand dello stesso settore, il consumatore possa divertirsi a giocare a memory contando le immagini che si ripetono nei siti delle diverse aziende.
La brand identity nell’era dell’IA
Non serve nemmeno più perdere qualche minuto alla ricerca dell’immagine migliore. Grazie all’avvento dell’Intelligenza Artificiale in grado di generare immagini, la creazione della componente visual della brand identity richiede solo qualche riga di prompt e una pressione decisa sul tasto invio. Almeno così credono alcuni.
Le potenzialità del mezzo sono effettivamente numerose e, tralasciando gli aspetti etici legati alla paternità dei soggetti, comunque non secondari, le CGI possono costituire un’alternativa interessante ai file su licenza. Uniche, personalizzabili, potenzialmente gratuite: le immagini generate con l’Intelligenza Artificiale potrebbero sembrare le alleate perfette per una visual identity low cost.
Il crescente tecno-entusiasmo, unito a una diffusa ingenuità, portano però a trovare in Rete esempi di aziende che, prompt su prompt, hanno fatto a pezzi la loro brand identity a favore di qualche ora di editing risparmiata. Pullulano, infatti, siti web colmi di immagini che riflettono inesperienza artificiale da ogni pixel: pessima qualità, nessun ordine compositivo, contorni e forme indefinite, visi mutilati e improponibili pattern di icone tridimensionali. Immagini di questo tipo sono in grado di diminuire il valore percepito del brand dalla prima visita al sito.
A mancare non è solamente l’occhio esperto di un fotografo. Si decide di accantonare il buon senso e la professionalità di opporsi a illustrazioni che sembrano uscite dalla matita di un fumettista ubriaco.
Affinché l’Intelligenza Artificiale diventi davvero un’alleata preziosa per lo sviluppo della brand identity, infatti, è necessario condurre una ricerca ampia quasi quanto quella che affronterebbe un professionista per creare da zero l’identità fotografica di un marchio. A cambiare sono solo le figure professionali e le competenze coinvolte.
È indispensabile, innanzitutto, conoscere strumenti specifici e verticali: andando oltre Chat GPT, si possono scoprire mondi fantastici. A seguire, è bene ricordare che i modelli di intelligenza artificiale conversazionale non sono la dematerializzazione in bit del Genio della Lampada. Come in tutta l’informatica, vale la logica garbage in, garbage out: per ottenere un buon risultato è necessario formulare prompt chiari, strutturati e ottimizzati per il singolo agente in uso. Infine, una buona conoscenza dei programmi di editing non guasta: si possono generare foto estremamente valide ma il tocco umano garantisce il quid in più per creare una brand identity unica ed efficace.
Eguagliare i capolavori della fotografia commerciale del passato è un’impresa complessa ma riuscire a costruire un apparato visivo in grado di contribuire a una brand identity vincente è ancora possibile. Un approccio critico alla generazione artificiale di immagini e un tocco di creatività umana permettono di ottenere ottimi scatti, siano essi destinati alla copertina di una rivista o all’asset creativo di una campagna Ads.
Riferimenti
Immagine di copertina: Shubham Dhage, unsplash.it.