Banner blindness: dalla cecità degli utenti al native advertising

«A guardarne troppi, si diventa ciechi» recita il detto e, almeno in questo caso, la saggezza popolare sembra non sbagliare.

La proliferazione di annunci pubblicitari di ogni genere e forma all’interno dei siti web ha condotto gli utenti a una nuova forma di cecità: la banner blindness.

Non viene diagnosticata durante la visita oculistica, non servono lenti graduate per correggerla e non esiste operazione per eliminarla definitivamente. La banner blindness è, in realtà, una “patologia” molto diffusa ma la cura miracolosa deve ancora essere scoperta.

Cos’è la banner blindness?

Per banner blindness si intende quel processo cognitivo, spesso inconscio, per il quale gli utenti di Internet tendono ad ignorare i contenuti pubblicitari presenti all’interno di una pagina web. Si tratta di un meccanismo di difesa che il nostro cervello tende a mettere in atto quando si trova a gestire una condizione di sovraccarico informativo.

A teorizzare per la prima volta la banner blindness è stato lo psicologo Jan Panero Benway, nel 1998. Grazie alla metodologia dell’eye-tracking, ha notato come gli utenti evitavano di porre il loro sguardo sugli appariscenti messaggi pubblicitari presenti all’interno delle pagine online, focalizzandosi nella ricerca del contenuto di reale interesse.

Alla base di questo filtro inconscio che guida la lettura degli utenti online risiede ciò che gli psicologi definiscono sovraccarico informativo. Di fronte ad una grande mole di stimoli che lo raggiungono contemporaneamente, infatti, il nostro cervello tende ad eseguire una rapida scansione dei contenuti, per poi concentrarsi sulla ricerca delle informazioni davvero rilevanti.

La banner blindness costituisce un problema per due attori fondamentali del panorama digitale: gli inserzionisti e gli editori. I primi, acquirenti degli spazi promozionali, rischiano di ottenere ritorni sempre più scarsi dalle loro campagne di online advertising; i secondi, produttori dei contenuti e proprietari degli spazi web, temono vengano meno gli introiti pubblicitari da parte di aziende sempre più scoraggiate nell’investire in display adv.

Dal primo banner alla cecità pubblicitaria

Non è mai sembrato così lontano quel 27 ottobre 1994, quando sul portale hotwired.com apparve il primo banner pubblicitario della storia del web. Si trattava di una sperimentale iniziativa pubblicitaria messa in atto dall’agenzia Modem Media per conto della società telefonica statunitense AT&T.

Un grande rettangolo nero su cui spiccava la scritta variopinta: «Have you ever clicked your mouse right HERE?». A qualche pixel di distanza, collegata da una freccia, la risposta: «YOU WILL». Una novità assoluta che avrebbe rivoluzionato il mondo della pubblicità per sempre, dando il via alla corsa all’online da parte delle agenzie e delle aziende di ogni settore.

Il primo banner di AT&T
Il primo banner pubblicitario della storia del web.

I risultati ottenuti da questa attivazione sembrano oggi quasi irreali. Secondo Joe McCambley, all’interno del team di lavoro che ideò l’operazione, il 44% degli utenti che visitarono la pagina cliccarono sull’annuncio. Un CTR che, oggi, assicurerebbe a qualsiasi advertiser una promozione immediata. E forse anche un busto in marmo sul tavolo della sala caffè.

Quali sono le cause della banner blindness?

Fatta pace con l’impossibilità di replicare quel 44% registrato da AT&T, è quantomeno auspicabile comprendere quali fattori ci impediscono di ripetere un’impresa tanto eroica.

A rendere così invisibili agli occhi degli utenti i banner pubblicitari sono diversi fattori che, negli anni, sono divenuti tratti peculiari della pratica pubblicitaria del display advertising. Tra questi: la posizione degli annunci, lo stile delle inserzioni, la quantità degli spazi promozionali e l’utilità percepita dei messaggi.

La posizione degli annunci

Uno dei fattori primari della banner blindness è la posizione degli annunci all’interno delle pagine web. Gli utenti, ricerca dopo ricerca, hanno infatti memorizzato quali sono le aree dello schermo nelle quali, solitamente, sono ospitati i messaggi pubblicitari. La sezione in cima alla pagina e quella all’estrema destra, ovvero le zone in cui compare la maggior parte dei banner pubblicitari, sono ormai pressoché inconsciamente ignorate da tutti i lettori.

Lo stile delle inserzioni

Con il diffondersi della pratica del display advertising si è andata delineando una precisa estetica pubblicitaria che ha influenzato il layout e l’aspetto dei banner della maggior parte delle aziende. Uno stile uniforme e inflazionato, divenuto estremamente riconoscibile a chi naviga sul web, si è sedimentato all’interno del cervello dei lettori e contribuisce a quel processo di selezione cognitiva inconscia che porta allo sviluppo della banner blindness.

La quantità delle inserzioni

Nonostante il detto popolare me lo sia già giocato in apertura, mi perdonerete un’altra massima di un antico saggio: «Il troppo stroppia». Da quando l’advertising pay per view è diventato il modello di business della maggior parte dei siti e dei portali di informazione online, le pagine di blog, forum e testate giornalistiche hanno iniziato a pullulare di rettangoli colorati alla cerca del click degli utenti. Una concentrazione troppo elevata di messaggi pubblicitari all’interno dei contenuti editoriali ha portato a un’inevitabile assuefazione dei lettori e, come conseguenza, alla banner blindness.

L’utilità percepita dei messaggi

In ultima battuta, all’origine della banner blindness figurano anche le scelte creative e strategiche di aziende e agenzie nel confezionamento degli annunci. Abbagliati dall’iniziale entusiasmo di ottenere grandi risultati a fronte di investimenti molto inferiori rispetto ad altri mezzi pubblicitari più tradizionali, gli advertiser hanno deciso di procedere con strategie di conversione estremamente aggressive, spesso prive di quella componente ludica o informativa necessaria per risultare rilevanti per gli utenti e per non essere percepiti come mera fonte di disturbo.

La banner blindness nasce nel cervello

Ormai lo abbiamo capito. Non sono certo le pupille dei nostri occhi a saltellare qui e là sullo schermo per fare lo slalom tra le inserzioni. Il responsabile unico della banner blindness è, infatti, il nostro cervello.

Il modo in cui ci approcciamo alla lettura di una pagina web prende forma all’interno della nostra mente ed è strettamente connesso agli obiettivi e alle aspettative con cui consultiamo un sito Internet. Le motivazioni dell’utente, i suoi obiettivi di ricerca e i tratti comuni che ha imparato a riconoscere navigando in Rete influenzano la lettura dei testi e la considerazione riservata agli spazi pubblicitari.

Navigazione dopo navigazione, come prodi marinai, abbiamo elaborato degli schemi cognitivi che ci aiutano ad orientarci nell’oceano di stimoli delle pagine web. In questo modo, siamo in grado di reperire le informazioni che ci interessano realmente senza perdere troppo tempo e preziose energie.

Tra questi schemi mentali, responsabili della banner blindness, spicca l’arcinoto modello di lettura a F.

Il modello di lettura a F
Il modello di lettura a F.
  1. L’utente scansiona la parte superiore del contenuto in orizzontale;
  2. sposta poi l’attenzione più in basso, leggendo una seconda sezione orizzontale;
  3. si concentra infine solo sul lato sinistro della pagina, fino ad arrivare al bordo dello schermo.

La sezione all’estrema destra, dove è collocata la maggior parte dei banner pubblicitari? Non pervenuta.

Le paure degli editori

A temere gli effetti della banner blindness, come anticipato, non sono solamente gli inserzionisti. A veder messo in discussione il proprio modello di business sono anche, e soprattutto, gli editori. Coloro che investono tempo e risorse nella realizzazione di pagine web, nel tentativo di fornire agli utenti le risposte più appropriate alle loro domande, rischiano di veder venir meno il loro meccanismo di sussistenza.

Oltre al progressivo calo degli introiti pubblicitari, a pagare il prezzo più elevato della banner blindness potrebbero essere gli stessi contenuti delle pagine. La mente dell’utente, abituata a una lettura trasversale e dominata dal comportamento appreso che la porta a ignorare intere porzioni di schermo, fatica a riconoscere come rilevanti le informazioni posizionate in quelle aree solitamente riservate agli annunci a pagamento. Per il principio di prossimità teorizzato dalla Scuola Psicologica della Gestalt, questa dinamica è valida anche per le posizioni limitrofe a quelle comunemente occupate dai banner.

Diventa quindi di centrale importanza sviluppare siti web con layout riconoscibili e in grado di assicurare una user experience ottimale, anche sul piano dell’attenzione selettiva. A meno che l’obiettivo non sia un clamoroso autogol, si sconsiglia quindi di inserire contenuto nell’estremità superiore della pagina e nella colonna laterale destra, così come non è raccomandato presentare i contenuti in formati percettivamente simili ai banner.

La soluzione alla banner blindness: il native advertising

Una buona targettizzazione delle campagne, una copiosa dose di creatività negli annunci e un posizionamento accorto sono raccomandazioni sicuramente valide per evitare il peggio, ma suonano molto simili al mettere i calzini di lana per non prendere l’influenza. Aiutano? Certo. Ma non risolvono sicuramente il problema.

La realtà con cui agenzie e aziende devono fare i conti è che la soglia di difesa cognitiva degli utenti si è innalzata ed è necessario trovare espedienti pubblicitari nuovi, in grado di colpire il lettore laddove egli non ha ancora costruito barriere difensive invalicabili.

Il native advertising è senza dubbio la forma pubblicitaria che, ad oggi, risulta meno invasiva sul piano percettivo e che riesce ad assicurare ottimi risultati agli inserzionisti, così come agli editori. Presentare, infatti, le promozioni come parte integrante del contenuto delle pagine web permette di mimetizzare la réclame, di farla apparire meno intrusiva e di aggirare il fenomeno della banner blindness.

Il native advertising segna il passaggio, anche nel mondo online, da un modello comunicativo dei brand basato sull’interruzione a una strategia che tende a mascherarsi all’interno del flusso di informazioni per raggiungere l’utente nel momento in cui è maggiormente disposto a recepire i messaggi.

Non va trascurata, però, l’importanza di muoversi all’interno di precisi confini etici: mettere l’utente in difficoltà e impedirgli di riconoscere quali sono i contenuti pubblicitari e quali no porta a un inevitabile dissolvimento del rapporto di fiducia tra lettore ed editore, come tra consumatore e brand. E riconquistare la fiducia costa molto di più di un banner ignorato.

Riferimenti

McCambley J., «Stop selling ads and do something useful», hbr.org (30/03/2025).

Munro B., «What Is Banner Blindness? How to Reduce It?», publift.com (30/03/2025).

Pernice K., «Banner Blindness Revisited: Users Dodge Ads on Mobile and Desktop», nngroup.com (30/03/2025).

Immagine di copertina: Magnet.me, unsplash.com.